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Intervento del Prof. Onida al Seminario di Bergamo il 28/6
Stralci del contributo del Presidente Emerito della Corte costituzionale

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La storia delle Province è estremamente complessa e trova le sue radici nella Costituente, quando l’Assemblea decide di costituzionalizzare queste istituzioni. Diverse poi sono le successive riforme che ne hanno modificato il profilo, fino ad arrivare alla Legge 56/14.
Una Legge che si inserisce in un momento in cui il dibattito sulle autonomie è fortemente influenzato da un clima dominato dalla propaganda che, sotto la spinta degli slogan su casta e costi della politica, mette in crisi il modello istituzionale. Questo accade probabilmente anche perché la cultura autonomistica stessa è messa sotto accusa.
La Legge 56/14 è infatti una legge fortemente centralistica, che riaccentra su Stato e Regioni funzioni amministrative e cancella la rappresentanza territoriale.
Ne sono esempio le Città metropolitane: previste dalla legge del 1990, costituzionalizzate con la riforma del 2001, oggi sono enti locali scomparsi. Lo stesso sistema elettorale, con il sindaco metropolitano eletto dai soli cittadini del capoluogo, ne ha decretato la scomparsa. Di fatto, non si è voluto che le Città metropolitane funzionassero, forse perché non entrassero in “concorrenza” con le Regioni.
La Legge 56/14, d’altronde, è nata in un clima di pesante attacco alle autonomie e si dichiara apertamente dettata in attesa della riforma del titolo V e della scomparsa delle Province. È dunque possibile oggi, dopo che quella riforma non è stata approvata, immaginare di continuare a gestire il tema del governo dei territori sulla base di una legge che era apertamente intesa ad eliminare le province? No, non è possibile. Non lo è né sul terreno delle funzioni, né tanto meno nella definizione degli organi.
Quanto alle funzioni la Legge Delrio stabilisce alcuni principi, lasciando però poi che il processo di riallocamento tra Stato e Regioni si realizzi senza dare alcuna indicazione certa, senza un disegno chiaro. Infatti, è sotto gli occhi di tutti la confusione causata da come Stato e Regioni hanno attuato il percorso di ridefinizione delle funzioni delle Province.
Ma il vero tema che scopre l’intento anti autonomistico della Legge sta nella definizione che dà degli organi provinciali: si eliminano gli esecutivi e si introduce un sistema di elezione che è chiaramente volto a far scomparire la politica. Non è la scelta del modello elettorale, di elezione indiretta, che determina questo effetto: anche il presidente della Repubblica è eletto con sistema indiretto, chi può dire che non sia rappresentativo? È piuttosto il modo in cui si è regolata questa elezione di secondo livello, non solo riservando l’elettorato attivo esclusivamente ai sindaci e ai consiglieri comunali della Provincia, ma stabilendo che coloro che amministreranno le Province debbano essere scelti esclusivamente tra gli amministratori comunali e che questi conserveranno la loro carica comunale.
Quelli che sono eletti, dunque, in realtà non sono organi delle Province, ma organi del Comune a cui si dà una funzioni di ordine sovracomunale.
Si arriva anche ad eliminare ogni forma di indennità, situazione unica nel quadro politico italiano, un sistema in cui le funzioni pubbliche elettive sono dotate di una indennità che consente al titolare di potere esercitare al meglio la propria carica, che per le Province è completamente negato.
Non si tratta di costi della politica: è un problema di cultura. Non si vuole dare corpo ad una rappresentanza dei territori provinciali, rappresentanza che scompare. Con questa Legge si è volutamente cancellato il ceto politico locale, e questo ha provocato un cambiamento a tutti i livelli: oggi la maggior parte dei parlamentari vengono che siedono in Parlamento non hanno mai fatto prima alcuna esperienza amministrativa. Non si ritiene più importante quello che prima era considerato essenziale: che una persona che assume cariche politiche inizia prendendosi cura delle proprie comunità.
Continuare a sostenere questa riforma ormai non è più possibile e non ha alcun senso.
Quello che va rivendicato, dopo il fallimento del referendum, è il ripristino della dimensione politico rappresentativa delle Province.
Quanto al comma 116, sebbene la norma in nulla chiami in causa gli enti locali, il percorso di attuazione del regionalismo differenziato può essere comunque un momento di ricostruzione delle autonomie provinciali. Infatti, se l’attuazione del 116 attiene all’assegnazione di nuove competenze delle Regioni su politiche che si fanno sul territorio, occorre rimarcare che si tratta di spostare dallo Stato alle Regioni competenze legislative. Ma se queste competenze poi si traducono in atti amministrativi e che riguardano la gestione delle risorse sui territori, allora si deve affrontare il tema di come queste funzioni vengono allocate dalle Regioni ai territori. Di come cioè si riassegnano funzioni e risorse alle Province.
Quanto poi al futuro di queste istituzioni, potrebbe riprendere piede l’idea che le Province sono troppe: d’altronde proprio l’eccessivo proliferare di Province, voluto dal Parlamento, ne ha portato all’indebolimento.
Quindi, si potrà discutere certo delle dimensioni territoriali e di riorganizzazione territoriale delle Province, ma non dei caratteri istituzionali: non del loro indebolimento istituzionale.